Un discreto conclave di editori americani

Una riunione
misteriosa, tanto discreta quanto importante, giovedì 28 maggio, in un
anonimo hotel alla periferia di Chicago. A due passi, l'areoporto
O'Hare. Niente glamour per un meeting di lavoro tra i manager che
decidono le sorti dei maggiori gruppi editoriali americani, occupati da
mesi a contare le perdite delle loro aziende strette tra la crisi della
pubblicità e la concorrenza delle news gratuite online. Un incubo che
li ha spinti ad accettare l'appuntamento con i loro colleghi,
organizzato dalla Newspaper Association of America, per discutere su
come "monetizzare i contenuti". Ma non per fare accademia. Per trovare un accordo. E uno spiraglio di soluzione.

Quale
accordo? Quale soluzione? Di che cosa hanno parlato in realtà? La Naa,
senza farlo sapere neppure sul suo sito, è riuscita a riunire due
dozzine dei suoi associati, compresi i pesi massimi come New
York Times,
Gannett, Hearst
Newspapers, Associated Press, Philadelphia Media
Holdings. C'era anche Tom Curly, della Associated Press, il più duro
sostenitore della necessità di cambiare il modello della distribuzione
di notizie su internet. A quanto pare, mancava solo News Corp. Ma il
tema della discussione era stato lanciato proprio da Rupert Murdoch, il
megaeditore austaliano che ha cambiato strategia su internet almeno
cinque volte negli ultimi dieci anni e che sembra essere giunto a una
conclusione: occorre far pagare le notizie anche online.

Già,
ma non è così semplice. Come far pagare i giornali su internet se non
c'è un accordo tra tutti gli editori? Nel corso della lunga giornata di
discussioni, in quell'albergo di Chicago, si è parlato molto di questo.
Di certo, le aziende non possono fare un cartello. Ma condividere le
idee, hanno forse pensato alla Naa, potrebbe servire. Specialmente nel
corso di una crisi pesantissima come l'attuale.

La riunione
non poteva arrivare a una conclusione definitiva, secondo il
corrispondente di The Atlantic, James Warren, il primo ad averne dato
notizia. Ma è un segnale. Non solo di nervosismo. Perché è vero che il
"piano A", far pagare le notizie, non è facile da realizzare: il
cartello degli editori non sarebbe destinato a funzionare se non si
riuscisse a tenere sotto controllo anche la miriade di piccoli
giornali, blog e siti che pubblicano fiumi di notizie online senza
sostenere i livelli di costo dei grandi editori ma dando soddisfazione
a una buona quota delle curiosità informative del pubblico. E senza far
pagare un dollaro.

Ma c'è un "piano B". Molto più realistico.
Proprio sulla scorta delle opinioni espresse a più riprese da Curly,
gli editori vorrebbero mettersi d'accordo per creare una piattaforma
che aggreghi le loro notizie online e tagli fuori le piattaforme come
Google News o Yahoo! e molti altri servizi che raccolgono
automaticamente le notizie dai siti dei giornali e le linkano sulle
loro pagine. E si portano via una quota importante della pubblicità.

Un
mese fa c'era stata un'altra riunione molto discreta, a New York, anche
quella con due dozzine di executives editoriali americani. Veniva
presentata l'idea del "Fair Syndication Consortium" della Attributor:
si tratta di una piattaforma per aggregare le notizie online e
distribuire il traffico e il reddito equamente con gli editori. Il ceo
di Attributor, Jim Pitkow, non ha rivelato i nomi degli editori che si
erano riuniti per discutere del consorzio. Ma erano 25, lo stesso
numero di quelli che erano alla riunione di Chicago. E proprio di
Attributor si è discusso nella cena che ha preceduto il meeting di
Chicago. Insomma, mentre il
"piano A", quello di far pagare le notizie, può affascinare i capi
delle aziende editoriali americane, il "piano B" è già a buon punto.
Resta da vedere se è una buona idea. I giornali americani online
ricevono meno dell'1% del traffico internet e circa l'1,2% del totale
del tempo speso online, rilevano al Nieman Journalism Lab di Harvard:
ma nella categoria "news" la maggior parte del traffico va agli
aggregatori automatici, non ai siti dei giornali che producono il
contenuto originale. E quindi una parte consistente del reddito
pubblicitario prodotto da chi cerca notizie viene deviato dai giornali
agli aggregatori: che però sono anche dei grandi redistributori del
traffico verso i giornali stessi.

Perché un'idea come il
consorzio di Attributor funzioni gli editori dovrebbero riuscire a
impedire agli aggregatori automatici di accedere alle notizie,
costruire a loro volta un aggregatore efficiente e capace di attirare
altrettanto traffico di quello che va su Google News, raccogliere
pubblicità meglio di Google, e redistribuire il reddito in modo
efficiente. Non è impossibile. Ed è una pratica concorrenziale
relativamente leale, fintantoché è basata sul tentativo di produrre un
servizio migliore. Mentre diventerebbe un'idea piuttosto dubbia nel
momento in cui per tagliare fuori Google, gli editori si accordassero
di chiedere aiuto ai loro uffici legali. Ne verrebbe fuori una bizzarra
brutta copia della querelle della musica registrata.

ps. Nello stesso tempo, altri editori americani, compreso Murdoch erano riuniti a Carlsbad. A discutere delle stesse cose… Più o meno… Il resoconto di Mario Platero.